“Sto aiutando mio figlio a fare i compiti” è stata una delle risposte più comuni alla domanda “Cosa fate invece di guardare Sanremo?” posta da una giornalista su Facebook. E non si parlava solo di bambini delle elementari ma anche di studenti delle superiori. Del resto, dall’ultimo rapporto Ocse pare che i ragazzi italiani facciano più compiti della media europea, con risultati non entusiasmanti. Sul questo problema, abbiamo sentito due esperti, Massimo Parodi, dirigente scolastico e autore del libro Basta compiti ed Emanuela Confalonieri, docente di psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università Cattolica di Milano.
Parodi ha una posizione netta: “I compiti non servono e non vanno assegnati. Non è così che si impara e, soprattutto, non è così che si impara a imparare. I compiti sono discriminanti perché indiscriminati: vengono dati a tutti e avvantaggiano chi è già avvantaggiato dalla situazione familiare e sociale”.
Confalonieri è più possibilista: “I compiti dovrebbero essere pochi, soprattutto alle elementari e strettamente legati al lavoro fatto in classe. E gli insegnanti dovrebbero tener conto della situazione familiare, quando un bambino non fa i compiti. Esistono anche anche casi virtuosi di doposcuola, organizzati dai genitori, che permettono di studiare con tranquillità anche a chi non ha una situazione sociale favorevole.”
Ma aiutare i figli a fare i compiti è giusto? “A lavorare in autonomia si impara” risponde la professoressa “alle elementari un po’ di sostegno può essere utile, ma deve man mano scomparire. Se un ragazzo delle superiori continua ad averne bisogno, c’è un problema.”
A volte, sono i genitori ad avere un infantile timore del giudizio degli insegnanti: “Mi è capitato di sentir dire da una mamma Ho preso sette in inglese e quattro in matematica” racconta Parodi.
“Mandare a scuola un figlio con i compiti non fatti richiede un certo coraggio” sostiene Confalonieri “ma se la maestra dopo aver spiegato le addizioni ne dà un paio da fare a casa, per vedere se i bambini le hanno capite, e tutti arrivano con i risultati giusti, perché sono stati aiutati, non si renderà mai conto di non averle insegnate bene. I genitori devono capire che la scuola è un’esperienza dei figli, non loro e che educarli vuol dire accompagnarli verso l’autonomia”.
Tuttavia, secondo questo articolo di Repubblica a volte sono gli insegnanti stessi a chiedere alle famiglie di intervenire. “Sono insegnante e dirigente scolastico da una vita” si ribella Parodi “ma con i miei figli voglio fare il padre. Nella scuola l’innovazione più significativa sarebbe l’applicazione delle linee guida nazionali, che almeno per quella dell’obbligo non prevedono compiti. La didattica legale è molto distante dalla didattica reale e, per una volta, è anche molto migliore. I compiti, soprattutto su cose che non sono state fatte in classe, vengono assegnati perché gli insegnanti hanno l’ossessione di finire il programma, che poi è l’indice del libro di testo, perché le linee guida dicono altro. Ma questo è un problema loro, non dei genitori. ”
Ma senza compiti non si rischia di crescere una generazione poco abituata a impegnarsi? Secondo il dirigente scolastico, è vero il contrario: “Se un’attività provoca un riverbero interiore, i bambini e i ragazzi sono capaci di impegno e sforzi grandissimi, anche al di fuori della scuola. Ma i compiti producono repulsione nei confronti del sapere. Con quale obiettivo si assegnano? In tanti anni, non ho mai sentito un insegnante dirlo esplicitamente.”
Su quest’ultimo punto, Confalonieri è d’accordo: “Se un compito sembra troppo pesante o insensato, farlo al posto del figlio è sbagliatissimo. Invece, la cosa migliore è chiedere all’insegnante perché l’ha assegnato e discuterne insieme.” Ma una discussione seria e serena richiede una forte alleanza tra scuola e famiglia, perché gli insegnanti non si sentano “attaccati” e i genitori non si sentano “giudicati”. Noi di ClaS abbiamo elaborato una proposta per rendere automatica questa alleanza.